di Alessandra Capocefalo (archeologa)
Il farro dicocco del Molise è una realtà alimentare importante, già riconosciuta tra i P.A.T., i Prodotti Agroalimentari Tradizionali, che si avvia a ottenere il marchio di tutela della D.O.P., Denominazione di Origine Protetta, come il farro di Monteleone di Spoleto.
Entrambi i marchi hanno il fine di tutelare un prodotto originario e tradizionale, permettendo al consumatore di scegliere un cereale “tipico” della Regione, sopravvissuto all’estinzione grazie al lavoro quotidiano di alcuni agricoltori dell’Alto Molise (in particolare Agnone, Capracotta e Castel del Giudice) che, estranei alle logiche di massificazione delle colture cerealicole, hanno preservato piccole nicchie di coltivazione riscoperte solo da pochi decenni.
Tra la fine degli anni ’80 e gli anni ’90 alcuni enti di ricerca e sviluppo agricolo regionali in collaborazione con le università, intuite le potenzialità di un cereale “rustico” e naturalmente predisposto per la coltivazione con metodo biologico (che proprio in quegli anni avrebbe ottenuto la regolamentazione della Commissione Europea), hanno avviato un progetto multiregionale di recupero delle varietà autoctone di farro ancora marginalmente coltivato nelle zone dell’Appennino Centrale, tra cui il farro dicocco Molise.
Queste piccole nicchie, pochissimi ettari frazionati tra diversi agricoltori, erano esse stesse il retaggio di un sistema economico misto che, prima della carestia del 1764 e della conseguente trasformazione del territorio centrale del Molise in “granaio di Napoli”, era certamente più esteso.
«Ora è dimostrato che dal 1764 in qua l’industria in questa provincia ha avuto uno sviluppo rapidissimo ed un progresso nell’industria ne ha prodotto un altro proporzionato nella popolazione. […] È incredibile la differenza che tutti notano tra il modo di abitare, di vestire, di alimentarsi prima del 1764 e quello di poi. Tutto annunzia un aumento rapidissimo di ricchezza universale […] Ma quale è stata l’industria aumentata dopo il 1764? Quella sola de’ grani […] I boschi si sono distrutti, la pastorizia diminuita» (Vincenzo Cuoco, 1812, Viaggio in Molise).
Questo cambiamento economico, che introduce una nuova fase storica del territorio molisano, quella della produzione intensiva di grani duri e teneri che evidenziava la centralità di Campobasso, “uno dei sette mercati del Regno” (Giuseppe del Re, 1821, Calendario per l’anno 1821 quinto del regno di Ferdinando 1), era preceduto da un’economia mista, basata in buona parte sull’allevamento e su un’agricoltura diversificata «Fuori delle vallate del Matese, dove rarissima è la neve, tutta la provincia è una congerie di colline, cosicché è adatta a coltivazioni di vario genere. Produce abbondantemente orzo, farro, legumi d’ogni genere» (Giuseppe Maria Galanti, 1781, Descrizione dello stato antico ed attuale del Contado di Molise).
In assenza di analisi genetiche specifiche non si ha la certezza che la varietà molisana attuale sia una di quelle di cui parla il Galanti né che sia frutto di millenni di selezione ma, attualmente, l’ipotesi è estremamente suggestiva.
Il farro, rustico antenato del grano, è stato sicuramente il primo cereale a finire nelle focacce degli uomini del Neolitico, insieme all’orzo. Il più antico degli insediamenti molisani di questo periodo, Monte Maulo, vicino Larino, nel quale la missione inglese degli anni ’70 guidata dall’archeologo Graeme Barker ha raccolto in prevalenza semi di farro e orzo, conferma questo abbinamento antichissimo.
Inizialmente questi cereali, farro monococco (Triticum boeoticum), farro dicocco (Triticum dicoccoides) e orzo (Hordeum spontaneum) erano selvatici e venivano raccolti a mano a partire da una zona che si colloca grossomodo lungo la fascia esterna della cosiddetta “mezzaluna fertile”, un territorio che va dalla Palestina fino al Khuzistan, attraverso la fascia pedemontana del Tauro e dello Zagros, durante il XI-X millennio a. C..
E’ qui, dove la presenza spontanea di cereali selvatici era estremamente sviluppata, che si avvia la sperimentazione precoce delle tecniche di produzione del cibo in un periodo della preistoria definito Neolitico, età della pietra nuova.
Secondo un modello universalmente accettato (con alcune riserve), le pratiche agricole, le piante, gli animali ma anche le “parole” legate alla coltivazione, partite dal Vicino Oriente, si sarebbero dirette verso l’Europa, circa 9500 anni fa, con una velocità di penetrazione di circa 1 km all’anno; espandendosi prima lungo le coste del Mediterraneo orientale poi, attraverso la Turchia e la Grecia, sarebbero arrivate in Italia: cereali, ulivo, vite, capre e pecore sarebbero stati introdotti nella penisola solo a seguito di questa “migrazione”, inserendosi nel variegato contesto ambientale e culturale italico.
Già secondo gli autori di epoca romana dal farro, il cereale più antico e sicuramente il più testimoniato nella dieta neolitica italica, derivano le pratiche e il linguaggio legati alla panificazione: secondo Plinio il Vecchio (Plinio, Naturalis Historia, XVIII, 88) «Si comprende dal termine stesso che farina deriva da farro».
Inoltre, proprio Roma, secondo la testimonianza di Verrio Flacco riportata da Plinio (Plinio, Naturalis Historia, XVIII, 11), avrebbe sostituito tardivamente il farro con altri grani a seme nudo (grano duro e grano tenero): «Il popolo romano non avrebbe utilizzato (per la sua alimentazione) che farro, tra tutte le specie di frumento, per 300 anni».
Sempre a Roma, una delle forme matrimoniali più sacre, antiche e legittime era la confarreatio, una cerimonia religiosa che prevedeva che gli sposi spezzassero un pane di farro in presenza di dieci testimoni ad indicare l’antichità del rito e del cereale.
Tuttavia, già nella fase repubblicana, il farro aveva perso il suo primato, relegato ad un ruolo alimentare marginale dovuto anche alla scarsa attitudine alla panificazione rispetto al grano.
Durante il Medioevo il farro torna sulle tavole come ingrediente principale di zuppe nutrienti a base di brodo, carni grasse, formaggio, uova e spezie o ripieno di corpose torte rustiche.
Da un ricettario dell’Italia del sud della fine del XV secolo si conserva la ricetta di una minestra brodosa chiamata Potagio de farro: «Fa cocere lo farro in una cazola (casseruola) cum brodo grasso he magro, et quando serrà bene cotto mettice uno ho doi rossi de ova, cum caso gratato, sbattuti, he pipero, zaffrano et canella insieme. Et quando lo metti ad cocere, mette insieme uno pezzo di persuto (prosciutto), he poi, cotto, metti sopra caso he manda a tavola».
Secondo le testimonianze antiche la coltivazione del farro in Italia non è mai stata abbandonata del tutto da secoli, forse millenni, ma in Molise, se la precoce reintroduzione nella zona di Trivento ad opera di una cooperativa privata non ha dato seguito ad una coltivazione estensiva, bisognerà aspettare l’ultimo decennio per assistere ad uno sviluppo importante della produzione del farro dicocco del Molise e anche ad una sua visibilità, seppur limitata, sul mercato nazionale ad opera delle piccole aziende che lo producono (in particolare a Fossalto, Matrice, Montorio nei Frentani, Sant’Elia a Pianisi) e a quelle che lo trasformano in farina, pasta e prodotti da forno.
Grazie alla tenacia di questi piccoli imprenditori, produttori e trasformatori, il Molise può vantare tra i suoi prodotti agroalimentari tradizionali anche il farro dicocco che, in questi ultimi anni, ha ottenuto un ruolo non marginale nel panorama alimentare italiano.