Cibo e sesso, cucina ed eros. Dalla notte dei tempi, tra pentoloni e padelle molisane, l’aspetto gastronomico è stato spesso associato alla sfera sessuale. “Cazzariegl“, “cellette“, “sciuscelle“, “cazzitt“, ma anche l’uva “a celletta” sono parte di una terminologia linguistica che si è sviluppata su un territorio povero e contadino, ancorato alla terra e a uno spirito “dionisiaco“, godereccio e gioioso. Parole che hanno accompagnato la preparazioni di prodotti e piatti tipici descrivendoli così, in mondo inconfondibile. Accade così che la tradizionale pasta fresca fatta a mano, acqua e farina, e tagliata in pezzettini piccoli viene detta “cazzariegl” o “cazzitt”, alludendo, nemmeno tanto velatamente, a una dotazione sessuale minima. In quel caso, comunque, si può rinvigorire lo spirito: ecco arrivare la “celletta”, il peperoncino piccante il cui nome allude all’organo genitale maschile, capace secondo la tradizione di risvegliare appetiti (non solo di pancia) e che viene conservato secco sott’olio, tritato ed esposto nelle cucine molisane tradizionali forse proprio come segno di “virilità” gastronomica. Ma il dialetto culinario in Molise è bipartisan. E così ecco le “sciuscelle” (termine dal diretto richiamo all’organo genitale femminile), cioè le carrube, alimento utilizzato anche dagli uomini, ma destinato soprattutto agli animali. Infine, l’uva “a celletta”, dalla forma stretta e allungata. Un prodotto non molisano, ma entrato sulle tavole regionali e subito ribattezzato così. Perché del resto anche una bella mangiata dà piacere fisico, no?