O la ami o la odi. Non esistono vie di mezzo per la “scapece“, produzioni tipica del litorale molisano. Un alimento impegnativo, dal profumo persistente, pungente, inconfondibile. Passeggiare tra le bancarelle di un mercato o di una fiera significa essere accompagnati continuamente dal suo profumo, che fuoriesce dai grandi barili usati per la sua conservazione.
Il pesce utilizzato nella “scapece” molisana è di diversi tipi: pesce azzurro di piccola taglia, merluzzo, razza, ma anche palombo, polpo e calamari, a cui viene aggiunta farina, acqua, spezie, sale e aceto. Il pesce va lavato con molta cura, sgocciolato e infarinato. Successivamente va fritto in olio bollente. Una volta dorato va salato e sistemato in vasi di coccio, a strati, aggiungendo a ognuno di questi strati foglioline di salvia e aglio tritato. Nel frattempo acqua, aceto e sale vengono fatti bollire in uno stesso recipiente. Questa “miscela” va quindi versata calda, ma non bollente sul pesce “stratificato”.
L’origine del prodotto non è chiarissima. La parola “escabeche” pare provenga dall’arabo “sikbag” (la cui pronuncia suonava come “iskebech”) che si riferisce a un sugo di carne condito con aceto, un piatto tipico della Persia, citato anche nel libro “Le mille e una notte“. La forma castigliana “escabeche” apparve scritta per la prima volta nel 1525, nel “Libro de los Guisados” di Ruperto de Nola, edito a Toledo. Questo libro, si legge sull’enciclopedia on line Wikipedia, ha anche edizioni precedenti dove apparirebbe la parola escabeche; la prima edizione risale alla metà del secolo XIV, dove appare “escabeig a peix fregit”. Esiste anche un manoscritto catalano “Flors de les medicines” della metà del secolo XV nel quale appare un riferimento all'”escabex”.